
Vincenzo Nibali guarda indietro e racconta. Lo fa con la pacatezza di chi ha attraversato un’epoca torbida, senza mai piegarsi. In un’intervista al Corriere della Sera, il campione messinese ha parlato del doping come di un “fatto culturale” nel ciclismo degli anni Duemila, ma ha rivendicato con forza la propria scelta: “Mai nella vita mi sono dopato e soprattutto mai ho pensato di farlo”.
"Vincenzo Nibali: «Nella mia scuola giravano armi, lasciai la Sicilia senza rimpianti. Sono stato battuto da dopati. Dopo il Tour ho vissuto un incubo»"
— dome_buratti (@Dome689) May 3, 2025
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Il racconto è lucido, a tratti amaro. “Vincevo, ero italiano e il boss della mia squadra, Vinokourov, aveva un passato ambiguo… Sono stato pedinato, mi hanno aperto la macchina, controllato il telefono. Sono sicuro che mi siano entrati anche in casa”, spiega Nibali, con una serenità che suona come sfida: “Possono testare le provette anche tra cent’anni: non troveranno nulla. Sempre a testa alta”.
Non nasconde la delusione per ciò che ha perso a causa degli avversari dopati. Alla Liegi-Bastogne-Liegi del 2012, fu battuto da Iglinskij, trovato positivo due anni dopo. Alla Vuelta del 2010, si impose su Ezequiel Mosquera, successivamente radiato. “Probabilmente tanto ho perso, ma non mi sono mai posto davvero il problema”, dice.
“Gregari, capitani, compagni… molti si dopavano. Era così, un fatto generazionale. Ma se non volevi, non lo facevi. La generazione dopo ha cambiato mentalità e se oggi c’è un ciclismo pulito è anche grazie a noi”. Poi una frase simbolo, detta dai genitori quando lasciò la Sicilia: “Vai in casa d’altri, comportati bene. Se ti impongono cose sbagliate, torna a casa. Qui troverai sempre noi e un lavoro“. Una frase che gli ha fatto da guida.
Nibali non è mai stato un corridore estroverso e non ha mai festeggiato con eccesso di foga. “Consideravo vincere una cosa normale, non riuscivo mai a lasciarmi andare”, racconta. Solo in bici si liberava dal freno a mano tirato: la bici come terapia, come identità.
Le sue vittorie – la Vuelta 2010, il Giro 2013, il trionfo al Tour de France 2014 – lo hanno portato tra i grandi del ciclismo italiano. Accanto a Coppi, Bartali, Pantani, e pochi altri. Ma il successo ha avuto un prezzo: “Un anno d’incubo, travolto da popolarità, richieste, giornalisti. Con mia moglie volevamo scappare da tutto”. Solo dopo il ritiro, ammette, ha iniziato a vivere davvero.
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