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Roma, lo strazio di Berrettini: piange in conferenza stampa, “non so cosa succede”

Lo strazio di Matteo Berrettini, in lacrime durante la conferenza stampa dopo la partita persa contro il norvegese Casper Ruud (7-5, 2-0 e ritiro), ha colpito profondamente colleghi, addetti ai lavori e tifosi. E il primo pensiero che ha attraversato la mente di tutti è un semplice: non è giusto. Perché il tennista romano non lo merita.

Al Foro Italico, una sera qualsiasi di maggio, si è consumato l’ennesimo crocevia amaro della carriera del nostro campione. Ma questa volta fa più male. Perché a piegarsi sotto il peso della sfortuna non è solo il fisico, ma il cuore. E il cuore, quello di Matteo, è rimasto in campo anche dopo il ritiro contro Casper Ruud, mentre lui, in lacrime, tentava di spiegare l’ennesima beffa del destino. Anche a se stesso.

“Quando mi sono svegliato ieri ho capito che le cose erano un po’ complicate. Ma l’amore per questo torneo, per questa città, per mio fratello, per il tennis… mi ha spinto a provarci fino alla fine”, ha detto Matteo, che il giorno prima aveva giocato il doppio con il fratello Jacopo. (continua dopo la foto)

C’è qualcosa di profondamente umano in quelle parole. Non c’è solo l’atleta: c’è il ragazzo cresciuto a due passi dal Tevere, il fratello maggiore che ha condiviso l’emozione del doppio con quello minore, il gladiatore fragile che sente il richiamo della sua arena ma si scopre, ancora una volta, tradito dal proprio corpo.

Berrettini racconta di una fitta, l’ennesima, agli addominali. Una zona già tormentata, un vecchio demone che si è risvegliato a Madrid due settimane fa e che sembrava domato con un recupero-lampo. Ma Roma non ha fatto sconti. Né a lui né ai suoi sogni.

Berrettini, lacrime amare dopo il ritiro

“Una settimana fa non pensavo di giocare gli Internazionali, poi ho fatto un miracolo. Ed è stato sorprendente vincere una partita qui. Ma non volevo finire così, volevo evitarlo a tutti i costi”.

Un miracolo, lo chiama così. Perché lo è stato. E per chi c’era al Foro, per chi ha seguito il match d’esordio, è stato un lampo di luce tra le nuvole. Ma è durato poco. Fino a dieci minuti prima del match contro Ruud, Berrettini pensava di non farcela. Poi è sceso in campo. Da romano. Da innamorato. Da testardo. Come chi sa che forse non ce la farà, ma ci prova lo stesso.

Non credo di essermi strappato ancora”, dice. Ma lo dice quasi sussurrando. Come se lo volesse credere più di quanto non gli dica il suo fisico. Quel dolore che sente “vicino al punto in cui mi sono fatto male in precedenza” è un’ombra che lo segue da troppo tempo. (continua dopo la foto)

“Non so che cosa ci sia di sbagliato nei miei obliqui. Non mi va di fermarmi di nuovo”. È l’urlo di dolore di chi non ne può più. Di chi ama profondamente questo sport, ma inizia a guardarlo con paura. Di chi non vuole arrendersi, ma sa che, forse, il prossimo passo non dipende più solo dalla sua forza di volontà.

Se ne va così, Matteo Berrettini, dalla sala stampa. Occhi lucidi, voce rotta, anima spezzata. Senza rabbia, ma con un dolore che si spande nell’aria e avvolge tutto e tutti. Roma l’ha amato. E continuerà ad amarlo. Ma la tenerezza feroce di questo addio temporaneo resta una ferita difficile da sanare.

E allora non resta che aspettarti, Matteo. Come si aspetta un fratello, un bravo ragazzo, un campione. Perché quello che conta, nel tennis come nella vita, non è solo vincere. È provare a esserci, anche quando fa male. Anche quando le lacrime scorrono più veloci di un dritto lungolinea o di un servizio ben assestato.

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