
Certe squadre s’impongono. Altre resistono. L’Inter, questa Inter, fa entrambe le cose. In questi anni è cresciuta, si è smarrita, ha trionfato in Italia, ha perso di misura una finale di Champions contro la squadra più forte del mondo: il City di Guardiola. E solo un gigantesco errore di Lukaku a pochi minuti dalla fine le ha impedito di portare gli inglesi ai supplementari.
Ciò che questo calciatore ha fatto nella doppia sfida contro il Bayern Monaco è qualcosa di clamoroso, e c'era gente che aveva osato metterlo in discussione.
— Alessandro Vigo (@Aleee_Inter) April 17, 2025
Due gol e due prestazioni da gotha del calcio mondiale: perchè Lautaro Martinez è un fuoriclasse. pic.twitter.com/Gnt3ymCOQY
Ma tutte le esperienze fatte, anche le più dolorose, hanno portato a una crescita che oggi è sotto gli occhi di tutti. L’Inter ora cammina dritto e con lo sguardo alto. La squadra di Inzaghi è lì, tra le quattro regine d’Europa. Per la seconda volta in tre anni. Non per caso, non per fortuna. Ma perché se lo merita.
Come ha scritto Stefano Agresti sulla Gazzetta dello Sport, “nessuno è superiore a questa Inter”. E in fondo è tutto lì: organizzata, solida, ambiziosa. Una squadra che non si lascia suggestionare dai nomi altisonanti delle avversarie rimaste – Barcellona, PSG, Arsenal – perché ormai ha imparato a guardarle negli occhi. A sfidarle sul loro stesso piano. A giocarsela alla pari, sfumature comprese.

I nerazzurri hanno eliminato il Bayern Monaco, che forse delle otto ai quarti era la più difficile da superare per molti motivi. Per solidità, per ampiezza e valore della rosa, perché mossa da una determinazione feroce, data dal fatto che la finale si giocherà proprio nel suo stadio.
Si è detto che il Bayern fosse incerottato, senza Neuer, Upamecano, Musiala. Ma basta leggere i nomi di chi è andato in campo per cogliere la dimensione dell’impresa nerazzurra. Dalla panchina, Kompany ha mandato in campo gente come Gnabry e Coman, che da soli costano (in termini di spesa di mercato) più di quanto sia costata l’Inter in questi anni.
Il Bayern è una squadra d’acciaio. Campioni, storia, abitudine alla vetta. E fatto non indifferente, gioca in un campionato molto meno impegnativo di quello italiano, vinto dai bavaresi per molte stagioni consecutive, quindi sulla carta la squadra di Kompany era meno usurata dalla stagione in corso.
Inter, il capitano coraggioso
Quando all’inizio della ripresa Harry Kane ha gelato San Siro con quel gol improvviso, il rischio di un crollo emotivo ha gelato gli spalti come il vento impetuoso che sferzava la serata di Champions milanese. Ma lì si è vista la forza vera dell’Inter: niente panico, nessun cedimento, solo la voglia feroce di riprendersi la scena. E l’ha fatto. Prima col gioco, poi con il cuore. Fino al pareggio che ha chiuso la sfida e aperto un nuovo orizzonte.
In un calcio che, si dice, non ha più bandiere, l’Inter ha trovato la sua eccezione: Lautaro Martinez, che ormai ha anche lo sguardo nerazzurro. Goleador, trascinatore, anima e istinto, tutto insieme. La sua Inter è quella del carisma, dell’aiuto reciproco fra i compagni, che ci sia da andare all’assalto o da difendere il fortino in trincea. L’argentino gioca da capitano vero, da leader che sa dove vuole arrivare.

E adesso il Barça, forse la squadra peggiore da incrociare, la più piena di talento: ma che ha anche qualche fragilità. Ancora il Barcellona, che l’Inter di Mourinho affrontò nel 2010, quando Messi era nel pieno della sua carriera e intorno ai blaugrana si spandeva un’aura di invincibilità.
Stavolta è diverso. Non sono imbattibili. Hanno Yamal, Lewandowski, qualità a palate, ma anche una difesa che balla e una pressione che pesa, dopo 6 anni che non raggiungeva il penultimo atto della Champions. E anche loro, laggiù in Catalogna, staranno studiando come affrontare questa Inter che ha l’abitudine alla battaglia e l’ossessione del traguardo.
La semifinale è anche il frutto del lavoro di chi ha costruito questa squadra mattone dopo mattone. Marotta, Ausilio, Inzaghi. Una società che ha saputo superare le difficoltà economiche, un tecnico che ha plasmato una macchina europea, capace di soffrire ma anche di esaltarsi. Perché a questi livelli, l’organizzazione conta più del nome. La mentalità più del pedigree. E l’Inter, oggi, ha tutto. Testa, gioco, solidità. E fame. Tanta fame.
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