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Draft NBA: le 5 prime scelte che hanno deluso le aspettative dal 2000 a oggi

Bennett

Ogni anno, il Draft NBA rappresenta una cerimonia carica di attese, sogni e promesse. Le franchigie scommettono sul futuro scegliendo i migliori talenti emergenti, e la prima scelta assoluta viene spesso investita di un’aura mitica: quella del predestinato, il volto di una nuova era. Ma non sempre le cose vanno secondo i piani. Per ogni LeBron James o Dwight Howard, c’è stato anche chi ha fallito nel rispettare le altissime aspettative. Infortuni, contesti sbagliati, pressione mediatica o semplicemente un talento sopravvalutato: le ragioni possono essere molteplici, ma il risultato è lo stesso — una carriera che non ha mai spiccato il volo. In questo articolo ripercorriamo le 5 prime scelte assolute dal 2000 a oggi che hanno deluso di più, analizzando cosa è andato storto e perché non sono riuscite a lasciare il segno nella NBA. Un viaggio tra occasioni mancate, sliding doors e rimpianti, che racconta anche quanto sia difficile trasformare il potenziale in vera grandezza. (CONTINUA DOPO LA FOTO)

(Photo by Ronald Martinez/Getty Images)

Andrea Bargnani

Andrea Bargnani è stato il primo europeo nella storia ad essere selezionato con la prima scelta assoluta al Draft NBA, nel 2006, e il primo italiano a ricevere tale onore. Un talento precoce, sbocciato tra Roma e Treviso, consacrato in Eurolega con il Rising Star Trophy, e proiettato oltreoceano tra enormi aspettative. Eppure, a quasi vent’anni da quel momento, il suo nome compare spesso nelle liste delle prime scelte “che non hanno lasciato il segno”. Non si tratta di una bocciatura netta, perché Bargnani ha avuto stagioni solide – oltre 6.000 punti con i Raptors, un ruolo da titolare, prestazioni da 20+ punti di media – ma l’impressione generale è che non sia mai riuscito a diventare quel “franchise player” che una prima scelta dovrebbe incarnare.

Troppo discontinuo, spesso frenato da infortuni, mai davvero a suo agio sotto i riflettori. Né a Toronto, dove il pubblico lo ha fischiato spesso, né nelle brevi parentesi a New York e Brooklyn. Persino il ritorno in Europa, al Baskonia, si è chiuso rapidamente, preludio a un ritiro precoce. Alla base di questa parabola c’è anche un rapporto complesso con la comunicazione e l’immagine pubblica: Bargnani ha sempre rifiutato l’etichetta di star, non ha mai cercato visibilità o approvazione, e ha difeso una distanza che col tempo è diventata isolamento. Una carriera fatta più di potenzialità che di eredità, nel tempo sbagliato per un giocatore che sarebbe stato forse più compreso oggi, nell’era dello “stretch five”.

Bargnani
(Foto di Ronald Martinez/Getty Images)

Greg Oden

Greg Oden rappresenta una delle più grandi sliding doors nella storia recente del Draft NBA. Scelto con la prima assoluta nel 2007 dai Portland Trail Blazers, davanti a Kevin Durant, Oden incarnava il prototipo del centro dominante: 213 cm per oltre 110 kg, atletismo esplosivo, mani educate e un curriculum liceale e collegiale da predestinato. Eppure, la sua carriera è diventata l’emblema della fragilità del potenziale. Gli infortuni – in particolare alle ginocchia – lo hanno tormentato fin da subito, costringendolo a saltare intere stagioni e limitando il suo rendimento a 105 partite in sette anni.

Nel momento in cui avrebbe dovuto esplodere, si è ritrovato più spesso in sala riabilitazione che sul parquet, isolato dai compagni e consumato da una routine fatta di pesi e rieducazione. Con numeri che non raccontano il talento che era (career-high di 11 punti e 8 rimbalzi di media), Oden ha vissuto la parabola discendente di una promessa interrotta. Dopo Portland, un tentativo ai Miami Heat e una breve esperienza in Cina, ha detto addio al basket giocato a soli 28 anni. La sua storia, come quelle di altri “what if” del basket moderno, ricorda quanto il Draft possa essere una scommessa: non basta il talento, serve anche salute, contesto e una buona dose di fortuna.

Greg Oden
(Foto di Cooper Neill/BIG3/Getty Images)

Markelle Fultz

Markelle Fultz è diventato, suo malgrado, uno dei simboli più eloquenti del rischio insito in ogni prima scelta assoluta del Draft NBA. Selezionato nel 2017 dai Philadelphia 76ers con l’aspettativa di completare un trio da titolo insieme a Joel Embiid e Ben Simmons, Fultz era tutto ciò che una franchigia potesse desiderare: un playmaker moderno, fisicamente solido, capace di segnare in ogni modo e con una visione di gioco fuori scala. Ma il sogno si è infranto quasi subito. Un misterioso problema alla spalla – poi diagnosticato come sindrome dello stretto toracico superiore – ha minato le sue certezze, stravolto la sua meccanica di tiro e dato il via a un drammatico crollo di fiducia.

La narrazione mediatica, affrettata e spietata, lo ha bollato come “bust”, mentre i Sixers lo scaricavano silenziosamente dopo appena due stagioni. Oggi, Fultz è riuscito a reinventarsi a Orlando come solido veterano, guida silenziosa di una squadra in crescita. Ma resta uno dei casi più emblematici della generazione post-2000: un talento purissimo, frenato da un corpo che non ha retto all’impatto e da un contesto che non ha saputo proteggerlo. Un monito per chi ancora crede che essere la prima scelta significhi automaticamente lasciare un segno nella storia dell’NBA.

Fultz
(Foto di David Jensen/Getty Images)

Kwame Brown

Kwame Brown è da molti considerato il primo grande “what if” della NBA post-2000. Prima scelta assoluta al Draft del 2001, selezionato direttamente dall’high school dai Washington Wizards guidati da Michael Jordan, il suo nome porta con sé una promessa mai realizzata. Brown entrò nella lega con un carico enorme di aspettative, non solo per il talento mostrato a livello liceale — dove era il miglior rimbalzista e stoppatore della storia della Glynn Academy — ma anche per il peso simbolico della sua chiamata: il primo numero uno assoluto della storia scelto senza passare dal college. Eppure, la sua carriera NBA si è sviluppata all’insegna dell’inconsistenza.

Dopo una stagione da rookie deludente e un progressivo ma limitato miglioramento, Brown non riuscì mai a consolidarsi come giocatore d’élite. Infortuni, difficoltà relazionali e una gestione discutibile da parte della franchigia e dei veterani — come sottolineato da Al Harrington — contribuirono a frenare la sua crescita. Nonostante sprazzi di talento, come i 30 punti e 19 rimbalzi contro Sacramento nel 2004, Brown non fu mai all’altezza dello status che gli era stato cucito addosso. Passato tra Lakers, Grizzlies, Pistons e altri, il suo nome è diventato sinonimo di “bust“, ovvero promessa non mantenuta. Ma la storia di Kwame Brown è anche il riflesso di un sistema che, a volte, brucia i suoi giovani talenti invece di costruirli.

Kwame Brown
(Foto di G Fiume/Getty Images)

Anthony Bennett

Anthony Bennett è diventato, suo malgrado, uno dei simboli più emblematici delle scelte sbagliate nella storia recente del Draft NBA. Prima scelta assoluta nel 2013, selezionato dai Cleveland Cavaliers, Bennett rappresentava — almeno sulla carta — il prototipo del lungo moderno: esplosività e tiro dalla media. Eppure, il salto tra il college e il professionismo si è rivelato un baratro. Dopo una sola stagione a UNLV, ricca di potenziale ma non priva di limiti evidenti, il canadese è stato scelto al primo posto in un draft privo di certezze, anche grazie a una sapiente campagna di marketing del suo entourage, che ne ha esaltato le doti nascondendone le lacune.

Il campo, però, non perdona. Le sue prime prestazioni in NBA sono state disastrose: 1/21 al tiro nelle prime sette gare, difficoltà evidenti nella lettura di gioco, scarsa tenuta mentale e fisica. In breve tempo, è diventato il primo “bust” conclamato dell’era post-2000 ad aver indossato la corona di first overall pick. Le successive tappe — da Minnesota a Toronto, da Brooklyn al fallimentare passaggio in Eurolega con il Fenerbahçe — non hanno fatto che confermare una traiettoria discendente. Oggi, Bennett è ricordato non per ciò che ha fatto, ma per ciò che avrebbe potuto fare.

Bennett
(Foto di Tom Szczerbowski/Getty Images)

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