
Nazionale italiana, la catena del talento, a un certo punto, si spezza. Eppure è stato individuato da tempo il punto esatto di rottura, senza però che siano stati presi provvedimenti efficaci. Le Nazionali giovanili italiane sono competitive fino all’Under 20, ma è al gradino successivo che si apre un abisso rispetto alle altre selezioni europee.
Il problema è noto: i nostri giovani non trovano spazio in prima squadra. Vengono parcheggiati in Primavera o mandati in prestito nelle serie inferiori, senza un progetto tecnico concreto. Nel frattempo i coetanei europei — come Yamal, Doué, Bischof, Xavi Simons — prendono il volo grazie al minutaggio concesso nei club di vertice.
Un dato simbolico: nel 2023 l’Italia è uscita ai gironi dell’Europeo Under 21 per mano della Norvegia, una squadra che fino a poco tempo prima i nostri giovani battevano regolarmente nelle categorie inferiori. L’ultimo titolo europeo U21 risale al 2004, con Amelia, Barzagli, De Rossi, Gilardino e Zaccardo, che due anni dopo sarebbero diventati campioni del mondo.

I successi giovanili ci sono, ma restano isolati
Eppure, almeno fino all’Under 20, il vivaio azzurro funziona. Il presidente della FIGC Gravina aveva dichiarato che l’Italia è “prima in Europa nella costruzione del talento”. I numeri sembrano dargli ragione: dal 2018 ad oggi, l’Italia ha vinto un Europeo U17 e uno U19, disputando anche altre tre finali e diverse semifinali.
L’Under 20 ha raggiunto una semifinale e una finale mondiale nelle ultime due edizioni. In parallelo, però, la Nazionale maggiore non ha mai partecipato a un Mondiale nello stesso arco temporale. E l’Under 21 non è mai andata oltre i quarti.
In risposta al problema, i club hanno alzato l’età della Primavera da U19 a U20, non per valorizzare i giovani, ma per parcheggiarli un anno in più senza responsabilità. È il caso di Pafundi, enfant prodige azzurro convocato a 16 anni in Nazionale: oggi ne ha 19, e ha giocato appena 107 minuti in Serie A nell’ultima stagione.
La svolta della sentenza Bosman e il declino
Le radici del problema sono più profonde e risalgono alla liberalizzazione del mercato calcistico. Fino al 1980 le frontiere erano chiuse. Poi la sentenza Bosman del 1995 ha permesso il libero trasferimento dei giocatori comunitari, abbattendo i limiti imposti dalle federazioni.
Da allora, i club italiani hanno potuto riempire le rose di stranieri. E se nei primi anni dell’era Bosman l’Italia è rimasta competitiva, dal 1998 in poi ha conosciuto un lento ma inesorabile declino, eccezion fatta per il trionfo del 2006. Negli ultimi 20 anni: due eliminazioni ai gironi e due mancate qualificazioni ai Mondiali.
La Serie A parla sempre meno italiano
Oggi il 68,5% dei giocatori in Serie A è straniero, con un aumento del 10% rispetto a dieci anni fa. Anche nei settori giovanili, il fenomeno è marcato: il 36,8% dei calciatori in Primavera non è italiano.
Non si tratta di nazionalismo, ma di un limite oggettivo per i selezionatori delle Nazionali giovanili e maggiori, che hanno sempre meno talenti da cui attingere. Il problema è aggravato dal Decreto Crescita, pensato per far rientrare i cervelli in fuga, ma applicato anche ai calciatori.
Sebbene abbia portato in Italia campioni come Lautaro Martinez, ha anche permesso l’arrivo di molti stranieri mediocri, preferiti per convenienza economica agli italiani. È legittimo sul piano del mercato, ma se non si accompagna a una politica di valorizzazione dei giovani locali, si compromette il futuro della Nazionale.
Leggi anche:
- Inter protagonista: la rosa per il Mondiale per Club e le ambizioni nerazzurre
- Osimhen rifiuta l’Al Hilal: salta (per ora) il trasferimento in Arabia Saudita
- Spalletti esonerato, c’è già il nome del sostituto: di chi si tratta