I riccioloni, il sorriso, la parlantina romagnola che per un pilota italiano di MotoGp è un requisito minimo. Un vincente, un testardo, un lottatore. Quando Valentino Rossi lo guardava i suoi occhi brillavano per la felicità, perché davanti a sé aveva il suo erede naturale, un amico, uno del club del ranch di Tavullia. Un purosangue con l’energia e la tigna giusta per fare a sportellate con Marc Marquez, quel giovane spagnolo irruento che di lì a poco avrebbe messo in riga tutti. È con la sua morte che il motomondiale ha perso un protagonista, un campione. Un pezzo di futuro.
Marco Simoncelli se n’è andato otto anni fa, il 23 ottobre 2011. Quella domenica mattina maledetta l’Italia accese la tv presto per colpa del fuso orario della Malesia. Qualche giro, poi uno scivolone, due piloti che cadono, gli uomini del soccorso, l’ambulanza. Gara sospesa. Ci volle un po’ per capire quello che era successo sulla pista di Sepang, attimi interminabili in cui la speranza di tutti era sentire ancora la voce gracchiante del Sic dire: “Diobò, me la son vista brutta ma è andata bene”.
Invece furono proprio le voci, quelle di altri, ad accompagnare gli appassionati verso il baratro, anche se distante migliaia di chilometri: la morte di Simoncelli. Nel 2011 la MotoGp viene trasmessa da Mediaset. Dopo la carambola mortale con Colin Edwards e Rossi, è Loris Reggiani, spalla tecnica del telecronista Guido Meda, ad accorgersi per primo che qualcosa è andato storto, e ad urlare “Oh! Il casco di Simoncelli!”. Un urlo a cui seguono toni discendenti, martoriati dalla paura. Dai box la voce di Paolo Beltramo, compagno del Sic in memorabili scherzi nel paddock, avanza a fatica per dovere di cronaca, ma poi svanisce affogata dal pianto. Sono passati otto anni da quella mattina, ma quando si ricorda il Sic le voci, tutte, si rompono ancora.
Le vittorie e i titoli che furono di Simoncelli contano poco. Perché quello che avrebbe fatto sarebbe stato ancora più grande. Campione della 250, due podi in due anni nella classe regina, a soli 24 anni. I rossiani di ferro sognavano con lui e lui con l’onda giallo-46 che avrebbe ereditato dal fratello maggiore Valentino. Per i tifosi italiani era un comodo cuscino già cucito su cui sedersi dopo il ritiro del Dottore, in parte avevano già iniziato a farlo. Un passaggio soft da mito a nuovo mito, con la continuità nel sorriso e nel talento cristallino.
“Il miracolo che ha fatto oggi Marco Simoncelli – disse il dottor Claudio Costa al funerale del Sic a Coriano, di fronte a 60mila persone in silenzio – è che può diventare quello che avete sempre sognato. Diventa uno di voi, nei nostri cuori”. Là dentro, Marco, corri e vinci quanto vuoi. Apri il gas e vai, diobò.