Il tema dei colpi alla testa che i giocatori di rugby subiscono nella loro carriera è sempre attuale. Ogni sport prevede un margine di rischio per la salute, ovviamente. Ma nel caso di azioni di gioco in cui gli urti alla testa sono routine, la preoccupazione si fa – ciclicamente – sentire. Il tema è tornato vivo dopo la pubblicazione di un editoriale di L’Equipe che ha fatto particolarmente scalpore, nel quale si afferma che il rugby ‘uccide’ (il pezzo si riferisce alle morti di 3 giocatori in soli 5 mesi avvenute in Francia in seguito a concussioni sul campo da gioco). Un editoriale forte, con un prospettiva estrema, che ha suscitato una levata di scudi in difesa di questo sport.
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Traumi alla testa e degenerazione del cervello
Arriva uno studio britannico a gettare benzina sul fuoco. Secondo i ricercatori dell’Università di Glasgow, i giocatori di rugby e football hanno sei volte più possibilità di sviluppare patologie cerebrali degenerative. Lo studio, riporta il Telegraph, associa questa insorgenza ai ripetuti traumi alla testa. In particolare, è una malattia chiamata encefalopatia traumatica cronica (CTE) ad essere presa in esame, anche soprannominata ‘sindrome da demenza pugilistica’. Si tratta di una condizione patologica presumibilmente collegata alle ripetute commozioni cerebrali che avvengono negli sport di contatto. Oltre a rugby e football, si considerano pugilato, hockey, alcuni tipi di arti marziali. Nel tempo i colpi subiti influirebbero sull’attività neuronale. La CTE può essere diagnosticata con certezza solo post-mortem, e i suoi sintomi possono essere scambiati facilmente per altre patologie degenerative.
La ricerca si è svolta grazie alle prestazioni volontarie di ex giocatori, che hanno permesso agli scienziati di proseguire gli studi sul loro cervello dopo la morte. In particolare, sono stati analizzati i cervelli di chi soffriva di demenza. I risultati hanno rilevato che il 75% dei cervelli di ex giocatori di football e rugby portavano i segni della CTE. Un dato alto se comparato all’incidenza sulla popolazione generale affetta da demenza (inferiore al 12%).
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Invito alla prudenza
Intervistato dai media britannici (lo riporta sempre il Telegraph) il dottor Stewart, leader della ricerca, specifica che si tratta di osservazioni che richiedono ulteriori approfondimenti. E che ancora non è stata stabilita con certezza la correlazione tra lo sport di contatto e la demenza, si è solo osservato che esiste. Si fa tuttavia impellente la necessità di indagare ulteriormente la tematica.
L’invito a non saltare a conclusioni affrettate è condiviso da un nutrito gruppo di neuroscienziati e ricercatori, che ha pubblicato su The Lancet una lettera a firma collettiva invitando a non divulgare notizie allarmiste rispetto agli sport e alla CTE, affermando che gli studi svolti sino ad oggi sono agli albori. La sindrome di cui si parla è ancora poco conosciuta alla scienza, e si invita a prendere con le pinze ogni sua possibile divulgazione. Il tema è molto sentito negli Stati Uniti e in Canada, dove pochi mesi fa un ex giocatore di hockey su ghiaccio si è tolto la vita. E’ emerso dalla perizia post-mortem che era affetto da CTE, inizialmente non diagnosticata. La discussione infuria, ma le evidenze scientifiche non sono sufficienti a rischiarare le acque, ed è proprio per questo che gli specialisti chiedono che il tema venga trattato con estrema cautela.
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